Stati Uniti 2008: fuga dal golf

Il caddie ha la borsa leggera. Poche mazze oggi, poco lavoro, poco divertimento. Poche mance, pure. E' la crisi. Il caro mutui, lo spettro della recessione, le stime al ribasso, la caduta dei posti di lavoro disponibili: finisce tutto su un campo da golf. L'America ha deciso che la prima cosa superflua in un momento incerto e preoccupante è questa qua: l'erba perfettamente tagliata, la passeggiata tra una buca e l'altra, i birdie, gli eagle, la pausa al circolo dopo la partita. Taglia il golf. C'era qualcosa di strano negli ultimi mesi. C'erano club che nei weekend e nelle pause classiche della partitina tra manager vedevano poca gente. Così i capoccioni di questo sport che è il più praticato di tutti gli Stati Uniti sono andati a chiedere alla statistica: ecco, quattro milioni di persone hanno detto ciao al green. Quattro su trenta milioni di giocatori abituali. Tanti, così tanti che il Wall Street Journal e il New York Times si sono messi alla caccia delle ragioni. Cioè qui il golf è roba da tutti, una specie di status symbol dell'americanità. Una mazza la devi prendere in mano per forza. Costa più di altri passatempi e però non costa quanto in Europa. Quello che hanno scoperto nelle redazioni è che i giocatori hanno deciso di lasciare il golf perché hanno paura che sia inutile. Cioè troppo costoso. Cioè antieconomico. Cioè non più divertente. Perché se pensi che stai facendo una cosa che domani ti peserà sull'estratto conto della Visa, allora forse è meglio che tu non la faccia affatto.
Dannati subprime. E dannati giornali che raccontano una crisi che non si capisce ancora di che portata sia. Però preoccupa. Perché in ballo ci sono tanti soldi e milioni di posti di lavoro. Il golf paga per tutti. «Golfista per un giorno, golfista per sempre», dice un motto americano. Diceva, forse. Dei trenta milioni di giocatori che nel 2000 inondavano i campi, ora ne rimangono 26. Continuano a calare e poi sempre più persone sono costrette a giocare con meno frequenza di prima per ragioni di lavoro: nei dati della National Golf Foundation risulta che nel 2000 erano 6,9 milioni gli americani che si concedevano almeno 25 partite l'anno, una ogni due settimane. Cinque anni dopo erano a 4,6 milioni. Adesso meno di quattro milioni.
In calo anche la fascia maggiore, cioè coloro che giocano otto partite all'anno e che sono passati in sette anni dai 17,7 a 15 milioni e per fine anno diventeranno probabilmente meno di 14 milioni. I dirigenti della associazione golfistica americana si sono sfogati con il New York Times: «Le ragioni sono soprattutto di tipo economico. La gente gioca meno perché o non ha più il tempo per farlo, oppure perché non se lo può più permettere. Molti sono costretti a fare due lavori perché hanno il mutuo da pagare, perché il potere d'acquisto del loro salario non aumenta o perché hanno pensioni troppo basse». Quelli che patiscono di più, sono i giocatori della middle class. Che in America sono la maggioranza. Qui il golf non è sport elitario. I circoli sono a centinaia e sono affrontabili da tutte le tasche. Cioè non tutte tutte: costa comunque più di ogni altro sport, per chi non è ricco resta una spesa pesante. Sopportabile, ma pesante. Per questo quando le cose funzionano la gente continua a giocare. Fino a qualche tempo fa, centinaia e centinaia di giocatori non avevano problemi a dedicare l'intero weekend al circolo. Oggi, invece, i proprietari e i soci «nobili» dei club vedono quegli ex ospiti abituali portare i loro figlioletti al parco a giocare a calcio. Il massimo dell'indecenza, quasi. Se vogliono giocare devono trovare un paio d'ore al mattino. Allora si riempiono i campi tiro che sono nelle metropoli tipo New York: guardano il mare e permettono di sparare una pallina lontano, tanto per sfogarsi un po'. Poi per vedere il golf vero bisogna aspettare la sera. La tv. Il cavo. C'è Tiger Woods. Lui guadagna ottanta milioni di dollari all'anno. Può giocare quanto vuole: i subprime non sa che cosa siano.
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